2019 Candela, masseria di Torre Bianca (Fg)
Materiali: Mattoni, paglia, basilico, pomodori, melanzane, peperoncini, barattini, zucche
Dimensioni: m 24 x 12 x h. max 0,4
my name is… il mio nome è…
Conosci l’altro e la sua realtà
Con la collaborazione di ArcheoLogica e Masserie di Puglia, nell’ambito del progetto TRAME RURALI
Testimonianze raccolte ed elaborate da: G. Baldasarre, P. Bevilacqua, A. Mentana, E. A. Moscaritolo
Con l’indispensabile contributo della Coop. Iris (SPRAR “Vulnerabili” e “Free entry
La narrazione è stata affidata alle voci di P. Bevilacqua e A. Correra (Piccola Compagnia Impertinente)
Il viaggio nella realtà altrui, quella che non è mai la nostra, sempre troppo distante dal giardino felice delle nostre vite, la cui esistenza fattuale ci preoccupa, delle volte a stento, solo nel breve arco di tempo che accompagna un servizio televisivo o la lettura di un articolo giornalistico, continua: nell’ambito del progetto “Trame Rurali” di “ArcheoLogica e Masserie di Puglia” con la collaborazione della Regione Puglia, della Provincia di Foggia, del Comune di Candela, Maria Dompè espande l’esigenza d’incontro, sviluppata con “my name is… il mio nome è… Conosci l’altro e la sua realtà” prima a Roma, poi a Napoli, realizzando la terza tappa in una mastodontica e storica masseria dell’entroterra pugliese.
E’ qui che l’artista, nell’estate di quest’anno, fra le assolate mura di quella che ha tutta l’aria d’essere una roccaforte medievale, ha avvertito la necessità di fermarsi; le è bastato il colpo d’occhio di un bambino nigeriano intento a trastullarsi nella corte esterna della sua casa-masseria, per comprendere di ritrovarsi dinanzi ad una predestinazione; avrebbe potuto anticipare o ritardare i suoi passi, ma in un modo o nell’altro, si sarebbe ritrovata a tener fede ad un appuntamento preso col destino, lo stesso che l’ha guidata in quegli spazi fuori dal tempo, in trepidante attesa del suo arrivo, per sentirsi completi.
Vista dall’alto, la migliore prospettiva per esaltarne la perfetta geometria, l’opera ambientale appare come un giardino, una visione onirica vestita di un abito cangiante, le cui forme sfiorano quelle dei suggestivi rosoni medievali; la loro colorazione globale, percepibile in uno sguardo d’insieme, è ottenuta mediante il ricorso all’offerta generosa di “sora nostra madre terra”: ortaggi dalla pigmentazione vivace sono fra i primi elementi decorativi di una scenografia che si pone in continuum con la struttura ospitante; in modo particolare, i contorni che ne delimitano la superficie d’esposizione sono realizzati dalla disposizione di mattoni grezzi, i quali, nella loro durezza di materia prima, richiamano le medesime asperità delle pareti incornicianti il corpo interno della masseria. Tutto, nel segno di un progetto che è natura, e che dovrà ritornare alla natura, una volta compiuto il suo tempo: Maria Dompè, come atto di ringraziamento ad una dimensione sociale frangibile, e già infranta dai colpi di coda di nefasti eventi, sceglie di realizzare un corpo artistico sotto il segno della ciclicità: le parti costituenti dell’opera, sono state ridistribuite a coloro che, seppur con iniziale diffidenza (riverbero consequenziale di una vita trascorsa in continua difesa) hanno accettato di raccontarsi alla penna di Giovanna Baldasarre, Pierluigi Bevilacqua, Annalisa Mentana ed Enza Moscaritolo, i quali sono stati immediatamente pronti ad accogliere e a trasformare in narrazione storie di donne, mamme, guerriere; uniche nella loro personalità, ma legate dal filo invisibile della sopravvivenza.
Così, ci si ritrova catapultati in una lavatrice di reazioni contrastanti, spie delle più diverse modalità di metabolizzazione del dolore, che vede come bersaglio prescelto quell’universo femminile stereotipato e cristalizzato nelle categorie di debolezza, delicatezza, condizionabilità, pronte, però, a cadere alla prima folata di vento, per svelare una forza che sfiora l’oltreumano.
Un appello alla conoscenza diretta del prossimo, di cui l’arte si fa portavoce nelle vesti dell’opera ambientale della Dompè, nata alla Masseria-Posta Torre Bianca di Candela, oggi struttura collettiva che ospita donne e bambini rifugiati (SPRAR, gestito dalla Coop. Iris), ma in antichità luogo di transumanza e riposo per greggi e pastori, in cammino lungo i tratturi: l’antica funzione di ospitalità è quindi riproposta, e ampliata come ponte fra due mondi solo apparentemente distanti, con il fine di guidarli sulla strada della pacifica convivenza e di un costruttivo scambio interculturale.
Valentina Pagano